Il soggetto incompiuto

“L’algebra si applica alle nubi;
le irradiazioni dell’astro si applicano alla rosa;
Nessun pensatore oserebbe dire che
Il profumo del biancospino è indifferente alle costellazioni.”
(da “I Miserabili” di Victor Hugo)

L’avventura umana
Quando ho letto su un giornale questa citazione dai Miserabili di V. Hugo sono rimasto per un attimo stordito. Luigi Pagliarani1 ripeteva che bisogna seguire il comando della bellezza. Che comando conteneva questa citazione che appariva a un tratto, splendida e inafferrabile? Una frase così non la afferri con le mani.

Piuttosto ti penetra con la sua fascinosa estraneità e tu non puoi che lasciarti andare a ciò che accade, una sorta di sognante girovagare fra l’assembrarsi di sensazioni/associazioni. La frase poetica è alla fine un evento che, se ti scuote e ti feconda, tu non la puoi non accogliere, perché quella frase, quella citazione, dal momento in qui è balzata fuori dalle pagine del giornale, è una frase che ti riguarda. È una frase inviata dal fato, solo per te.
Quella frase è l’evento, che a differenza di altri eventi ti ha turbato, ti ha fatto vedere mondi diversi e ineffabili, ti ha sbalzato fuori dal tuo quotidiano, portandoti altrove, nel luogo di uno stupore che ti lascia senza parole. E tu allora puoi accettare l’incontro con quella bellezza inafferrabile, che narra di costellazioni intente al profumo dei biancospini, ma che nel suo essere fascinosa sconvolgerà la tua vita, perché da quel momento tu non sarai più come allora…. Comincerà una storia di cui non solo non conosci l’esito, ma quando sarai di nuovo in grado di parlare, il racconto viaggerà sul filo delle tue parole, e sarà senz’altro una narrazione in cui conoscerai la pienezza delle tue sensazioni anche nella sofferenza e nel dolore.
Seguire il comando della bellezza, innanzi tutto vuol dire essere sbalzati, disancorati dalla banalità dell’esistenza. “Non esiste – scrive S. Beckett nel suo racconto “Assunzione” – suprema manifestazione della Bellezza di fronte a cui saliamo comodamente una scala di sensazioni per sederci leggeri sull’ultimo gradino ad assimilare il nostro appagamento: quello è il piacere della Leggiadria. Noi siamo afferrati fisicamente e scagliati a perdifiato al sommo di una rupe a picco: che è il dolore della Bellezza”. La bellezza ci fa soffrire, perché implica la relazione con un evento che da quel momento ci abita in maniera scomposta, nella sua persistente estraneità. La bellezza implica il misurarsi con gli eventi che ci affascinano e ci terrorizzano, perché ogni evento che ci appartiene è ambiguo e noi dobbiamo misurarci con la sua ambiguità per sapere chi siamo.
D. Meltzer, nel libro scritto in collaborazione con Williams M. H. (1988), Amore e timore della bellezza, scrive: “L’elemento tragico dell’esperienza estetica risiede non tanto nella sua fugacità, quanto nella qualità enigmatica dell’oggetto: ‘Gioia che tiene sempre sui labbri – aggiunge citando Keats – la mano a dire addio’.” (Meltzer, William, 1988, p. 47). Quella frase, che è come un verso, e che ci è tanto piaciuta “Nessun pensatore oserebbe dire che il profumo del biancospino è indifferente alle costellazioni”, evoca la bellezza, ma evoca anche spazi e sensibilità sconfinate, dove il pensiero rischia di perdersi. Il “conflitto estetico nella sua essenza non è la precarietà di ciò che a un tratto si ama, ma la pre-concezione di un suo eterno celarsi, di un lato oscuro, che l’incontro inevitabilmente evoca”.
La pre-concezione di cui Bion ci parla nei suoi libri, che è una forma silente nel nostro inconscio, è anche un’immagine nuda che si rivela quando ci mostra l’evento che ci farà innamorare. Tra i mille incontri possibili, emergenti dall’urto con lo sconosciuto che ci circonda, incontri che la mente consente attraverso la sua capacità di trasformare il reale in pensieri e immagini fluttuanti, la pre-concezione ci avverte dell’evento che, sostenuto da Eros, il fato ci invia per riconoscerci finalmente all’interno di una narrazione, che possiamo raccontare nel momento che si avvia; e sarà cruciale allora trovare le parole necessarie per raccontarla. La narrazione è la nostra necessità, perché è lo spazio vitale della specie umana.
Sarà la stessa pre-concezione a dirci, che l’avventura, che inizia nel momento in cui noi facciamo accadere l’evento sospeso e invitante, che il fato ha inviato solo per noi, che quello è il nostro destino. Ossia quando noi consentiamo che la bellissima citazione di V. Hugo dissolva ciò che ci circonda e ci interroghi guardandoci nel profondo degli occhi, nello stesso momento in cui noi la lasciamo accadere, noi intraprendiamo un’avventura pericolosa, piena di rischi, perché in realtà non conosciamo nulla di quella frase, né sappiamo dove ci porterà, abbiamo solo la consapevolezza di esserne innamorati. E non stiamo parlando di un amore vanesio e futile, stiamo parlando di Eros, il dio dei greci che aveva il compito di connettere il cielo con la terra, e noi sappiamo che Eros è forza, è energia creativa. La forza, scrive Agamben, che “eccede l’avventura.”
E di narrazione in narrazione, ci accade di rimanere sempre incompiuti. La vita nella nicchia in cui viviamo come esseri umani, se abbiamo ascoltato il nostro Puer interno, il demone, il genio (come dice L. P.) è un affastellarsi di storie, o meglio un susseguirsi di avventure dove giacciono parti di noi, vitali o dimenticate che siano. Noi siamo incompiuti perché non c’è la storia di tutte le storie, noi siamo come un romanzo di Bolano, dove la storia è il disperdersi delle storie nello spazio e nel tempo. Il filo rosso, quando c’è, è la fatica di perseguire pulsioni, dono di Eros, che consistono in un’estenuante e dolorosa ricerca di una verità su noi stessi, che esteticamente ci strappi da un’esistenza banale e inautentica. E non c’è nemmeno una narrazione finale e decisiva, perché fino all’ultimo saremmo lì, chiudendo gli occhi, a interrogarci, sognando la forma che abbiamo sempre sognato.
Il Puer e il Figlio
L. P. come ho accennato, parlava del Puer, del demone, del genio che, sostenuto da Eros, è la parte di noi che ci accompagna per tutta la vita e che follemente è lì, nel luogo esatto dove avviene l’urto con ciò che è impensabile, che ci attornia fuori e dentro di noi, che per Lacan è il reale e per Bion è “O” (l’original), il luogo che eccede senza scarti la nostra finitezza, la nostra capacità di comprendere. Lì dove, nell’urto, si attualizzano gli elementi beta, le cose in sé, che sono scaglie di un mondo estraneo e incomprensibile, che il Puer follemente assume e contiene, in accordo con il Figlio, trasformandole in elementi alfa che sono i pensieri con cui sono costruiti i sogni, è così che il Puer si situa in quell’area che Ogden colloca fra l’inconscio e il preconscio“.
Il confine del sogno – scrive Ogden – è un campo di forze psicologiche traboccante di impulsi liberatori, addomesticanti, ordinativi, ripieganti, fecondativi e ‘versificanti’. L’impulso versificante è quello che spinge all’espressione simbolica, la quale nasce non solo dall’incessante tentativo dell’inconscio di manifestarsi alla coscienza, ma anche dal fenomeno inverso di una coscienza che corre continuamente incontro all’inconscio” (Ogden, 2002, p.10). L’area “versificante” com’è definita da Ogden, è un’area di scambio, d’interazione, dove scaglie d’inconscio sono trasformate dal Puer per costituire i pensieri del sogno. L. P. sosteneva che solo i poeti sanno ascoltare fino in fondo la voce del Puer.
“L’arte – scrive Poggi citando M. von Werefkin – unisce ciò che è fuori di noi e dentro di noi e si manifesta, si esprime, assumendo una ‘forma che non è in noi né fuori di noi’ è un pensiero che prende forma. ‘Essere artista’, significa essere in grado di trasformare ogni emozione, ogni impressione in qualcosa su cui s’imprime la nostra personalità, che così riceve una sua forma” (Poggi, 2014, p. 98). Un pensiero che prende forma rimanda all’espressione di W. Bion “il pensiero non ha bisogno di un pensatore” (Bion, 1973), alludendo a un pensiero non ancora catturato dal linguaggio e dalla coscienza, un pensiero fluttuante, che il Puer/poeta veicola secondo una sua disposizione ontologica.
Noi, quali soggetti appartenenti alla specie umana, ci costituiamo nel più profondo della nostra esistenza attraverso un incontrarsi continuo e fecondo, tra il Puer e il Figlio, l’uno, il demone, il genio, il germe, messaggero di un mondo misterioso che inevitabilmente ci sfugge e di cui riesce a cogliere i riflessi inquietanti che trasforma nei pensieri senza pensatore dei nostri sogni; il secondo è il Figlio, colui che è generato, essendo generato in ogni secondo della sua esistenza, che sceglie tra i pensieri vaganti quello che consentirà l’incontro con l’evento che l’ha fatto innamorare, che costituirà l’esordio delle sue narrazioni e il seme delle sue forme cangianti.
Scrive L. P.: “Sostengo che l’essere figlio non è occasionale, ma è una condizione che ci rende tutti uguali e unici perché il nostro modo di essere è unico, anche se si tratta di gemelli. Questa condizione di figlio non ci abbandona mai per tutta la vita, a differenza di tutti gli altri ruoli che possiamo assumere di padre, madre, zio, consulenti, capi, dipendenti. Questi sono ruoli mutevoli. L’essere figlio è una condizione. Figlio e non “bambino” che – contrariamente a quel che sostiene Fornari – non è un parentema. La condizione di figlio è anche il genio che ci portiamo dentro, il demone il fanciullo, il puer. Che può essere cresciuto secondo il suo genio, appunto, o può essere trascurato, oppresso.”2 (Pagliarani, 1987, p. 40).
Per alcuni la parola figlio deriverebbe dal greco φύω (fyo) = produco, faccio essere, genero. Per questo figlio, significherebbe “il generato”. La relazione fra il Puer e il Figlio è una relazione ricorsiva, nella quale avviene l’incontro fra i pensieri vaganti del sogno, costituito da un flusso che scompone e ricompone le forme, e, dove i pensieri talora si aggregano e talora tornano allo stato nascente a un sobbalzare delle forme che si scompongono. Il Figlio si colloca agli albori della coscienza, dove le forme nascono e si dissolvono, dove i versi del poeta o le note dello spartito scombinano le forme del linguaggio e dell’armonia alla ricerca continua di manifestazioni adeguate di uno “spirito” che continuamente muta.
Nella misura in cui ogni soggetto mantiene la condizione di Figlio per tutta l’esistenza, ciò fa di lui, indefinitamente, ciò che è “generato”, ossia una forma vitale che trova la sua consistenza nell’essere esito sempre provvisorio di un processo generativo privo di soluzioni di continuità. Il soggetto, che si alimenta di questa relazione fra Puer e Figlio, non è, ma è fatto essere dalla persistenza di un processo creativo, e la sua vitalità è sospesa sul filo di un continuo reinventarsi. Egli è costituzionalmente l’avventura della sua vita, ed è sul filo di quest’avventura, sempre affacciata sul mistero di ciò che sta per accadere, che costruisce la sua esistenza.
Il soggetto incompiuto
Secondo il pensiero bioniano esiste una Realtà ultima e Verità assoluta che chiama “O” (Original).3. La Realtà ultima e la Verità assoluta non sono accessibili al pensiero e permangono al di là del linguaggio “conscio e inconscio e gli oggetti con cui interagiamo” (Grotstein, 2007, p. 138). In altre parole noi esistiamo in “O” e “O” segna la nostra appartenenza al mondo “altro” irraggiungibile al pensiero e che ci trascende, ma allo stesso tempo ci permea. Bion sostiene che se non possiamo comprendere “O”, noi possiamo perseguire la nostra verità attraverso la sintonia con “O”. L’essere sintonici con “O” significa stare su un’area di confine, nella zona dove noi cogliamo con i sensi l’urto con il reale che si trasforma in sensazioni impensabili (che Bion chiama elementi Beta).
Bion sostiene che noi attraverso la funzione alfa, che è una funzione della nostra mente, possiamo trasformare l’impensabile in pensabile, possiamo trasformare gli elementi beta in elementi alfa, che sono i pensieri che alimentano i sogni e i miti, che non hanno bisogno di un pensiero cosciente, ma sono pensieri che possono essere afferrati e accolti per alimentare l’avventura che rappresenta la possibilità di una narrazione fondata sulla verità che ci riguarda come soggetti. Bion parla della pulsione di verità, noi di Ariele pensiamo che esista anche una pulsione estetica, e che quando noi siamo in grado di essere la nostra verità attraverso l’avventura, in certi momenti riusciamo a dimenticare l’angoscia del vivere fino a sfiorare il senso di una nostra possibile bellezza.
La funzione alfa, secondo il pensiero di Bion, è costituita da diversi fattori, in particolare egli sofferma la sua attenzione rispettivamente sulla relazione contenitore/contenuto e sulla relazione fra PS e D. Ambedue collaborano alla trasformazione degli elementi beta in elemento alfa. La relazione contenitore contenuto, sembra più esposta verso il flusso di sensazioni generate dall’incontro con “O” le quali, nella misura in cui sono contenute, possono assumere configurazioni tollerabili per la mente umana, mentre la relazione ricorsiva tra P.S. e D sembra più inclinata verso l’interno, in una funzione di graduale adattamento dei pensieri nascenti alla nicchia abitata dalla specie.
Nell’agire di questi due fattori, il Puer più proteso verso l’ignoto e il Figlio più proteso verso l’apparente compiutezza del linguaggio, sprigionano, relazionandosi, la possibilità per il soggetto di intrecciare la sua esistenza con una realtà creata momento per momento sul filo dell’avventura. Una realtà altra che attraverso processi di trasformazione, a seguito del ritiro degli dei, si crea ex nihilo, nella misura in cui ciò che c’era all’origine e rimane fuori e dentro di noi è stato trasformato e si è creato a uno spazio che prevede una nuova origine, che è la nostra origine come specie, la nostra “O” personale, che la relazione tra il Puer e il Figlio ha generato e che il soggetto può percorrere con le narrazioni che la alimentano.
Perché attraverso il processo di trasformazione di “O” in un O personale, noi costruiamo non soltanto noi stessi ma l’ambiente che chiamiamo realtà, il luogo del simbolico che costituisce il nostro spazio di vita. D. F. Wallace nel suo libro di racconti Questa è l’acqua racconta di due pesci, uno giovane e l’altro anziano, con l’anziano che dice: “Oggi l’acqua è abbastanza torbida” e il giovane che risponde: “Che cos’è l’acqua?”. Noi viviamo, più o meno consapevolmente, in un luogo, in uno spazio, segnato dal ritiro degli dei (Nancy, 2003, p. 13), dove incessantemente inventiamo la nostra realtà e noi stessi, e questo è il luogo della nostra possibile sopravvivenza come esseri pensanti.
Il conflitto estetico è l’angoscia che ci attanaglia quando di fronte alla bellezza del mondo così come ci appare, siamo afferrati dalla paura di essere sbalzati fuori, come pesci boccheggianti sul ponte di una barca. Ed è solo l’amore per l’avventura, che è in fin dei conti la libertà che c’è data di costruire noi stessi e il mondo che ci appartiene, che può salvaguardarci dalla paura di un abisso che ci incalza da vicino. L. P., in una delle ultime interviste prima di morire s’interroga, ma l’amore c’è? Lui pensa che sia la circolarità dell’amore, l’amore comunque imperfetto che ci caratterizza, e che consiste nell’amare, nell’amarsi e nell’essere amato, che può salvaguardarci dall’angoscia paralizzante del conflitto estetico. Ma l’amore c’è?
Il soggetto e la sua finitezza
La specie umana è una specie “neotenica”, i cuccioli di uomo nascono incompleti, il cervello completa il suo sviluppo biologico nove mesi dopo la nascita. La condizione di mancanza ci accompagna come soggetti per tutta l’esistenza ed è ciò che ci separa indefinitamente dalla piena realizzazione delle nostre potenzialità; essendo la mancanza ciò che ancora non è giunto a realizzazione e, nello stesso momento, lo spazio della crescita e dello sviluppo che, nella sua indeterminatezza, nella misura in cui consiste in un processo creativo è, in maniera ineluttabile, legato a possibilità imprevedibili. Il bambino mancante, proteso allo sviluppo delle funzioni celebrali e corporee, cerca nella capacità di pensare i pensieri un esito finale e un inizio.
Le cure materne sono finalizzate a favorire la crescita in entrambe le direzioni, non solo al fine di ovviare alla situazione di mancanza, ma soprattutto a quella di promuovere l’autonomia. Per tutta la vita il soggetto è destinato a oscillare tra dipendenza e autonomia, trovando equilibri diversi nelle varie stagioni della vita. Madre e bambino costituiscono la coppia originaria e, all’interno di questa relazione, si realizza l’esordio alla vita. La relazione madre-bambino è per un verso la continuazione della gestazione e del parto, per un altro verso è l’esito di una cesura, perché è proprio allora che noi siamo gettati nella realtà che va costruendosi, che è a sua volta incompiuta e che inconsapevolmente ci attende.
Dopo la nascita il bambino è esposto al mondo, ma tale esposizione è temperata dalle cure della madre che consente livelli crescenti di autonomia, attraverso ritmi scanditi di lontananza/vicinanza. Il difetto fondamentale, teorizzato da Balint (Balint M., Balint E., 1983), che è l’altro aspetto della difettosità originaria, scaturisce dalle a-ritmicità e dalle umane imperfezioni dell’armonia intessuta dalla coppia madre/bambino e in qualche modo corrispondono a un difetto di verità. Il difetto fondamentale ci riguarda tutti, in misure diverse, come individui della specie: le dissonanze sono parte integrante della vita, l’armonia è l’attimo indimenticabile. Il difetto che ci accompagna per tutta la vita è, secondo L. P., come la mancanza, lo spazio vuoto che possiamo colmare, accoppiandoci con l’“l’altro”, per mettere al mondo il terzo, l’opera.
Il difetto fondamentale se per un verso preme verso la dipendenza, essendo alla ricerca dell’amore e del desiderio dell’altro, per l’altro genera la necessità di una maggiore sintonia e quindi asseconda la pulsione di verità. La mancanza se per un verso frustra il desiderio di autonomia, dall’altro stimola il soggetto verso l’acquisizione di forme provvisorie ma compiute assecondando così la pulsione estetica. Per L. P. il non perseguimento dell’ideale etico ed estetico è il tradimento di sé, è la scarsa fede nell’amore imperfetto di cui pure siamo capaci; le difettosità dell’umano secondo L. P. hanno il duplice verso della desistenza o della sfida, dell’auto-tradimento o dell’auto-realizzazione.
Il conflitto estetico è primario rispetto alla mancanza e al difetto fondamentale. Tutte le sofferenze e le angosce “traggono – scrive Meltzer – il fulcro del loro significato, per il processo evolutivo, dal loro contributo come aspetti del loro processo fondamentale di evitamento dell’impatto della bellezza nel mondo e dell’intimità passionale con un altro essere umano. (…)”. (Meltzer, Williams, 1988, p.49)Se il conflitto estetico è l’essere sospesi fra la possibilità di un’esistenza precaria del soggetto proteso verso la condizione dell’essere in senso proprio e la necessità di una continua narrazione al fine di non essere, più o meno consapevolmente, sbalzato fuori, boccheggiante, da una vita che abbia senso, la mancanza e il difetto fondamentale sono il memento della finitezza del soggetto che può essere trasformata nell’attualità di una sfida.
Meltzer parla di evitamento dell’impatto della bellezza nel mondo e dell’intimità passionale con un altro essere umano. Non a caso L. P. intitola Il coraggio di Venere (Pagliarani, 1987) il suo libro più famoso. Venere rappresenta appunto il coraggio della bellezza e dell’amore. La circolarità dell’amore è, per L. P., nella sua imperfezione, la possibilità di tollerare l’intollerabile dell’ambiguità del conflitto estetico, che si manifesta implacabile nella relazione con l’“Altro” ineffabile e scomodo compagno d’avventura. L’Altro, nella sua totalità e nelle sue diverse manifestazioni. L’Altro come individuo, come gruppo, come organizzazione che ci preme da tutti i lati, come polis, nella sua dimensione più caotica e sterminata.
Il soggetto e il mondo. La sfida della bellezza
“Eros – scrive Agamben nel suo libro L’avventura – è la potenza che, nell’avventura, costitutivamente la eccede, così come eccede e scavalca colui a cui essa avviene. L’amore è più forte dell’avventura – (…) ma forse proprio per questo noi facciamo ogni volta l’esperienza della nostra incapacità d’amare, di andare al di là dell’avventura e degli eventi – e, tuttavia, proprio questa incapacità è l’impulso che ci spinge all’amore. Come se l’amore fosse più tanto ardente e intriso di nostalgia, quanto più forte si rivela in esso l’incapacità di amare”. (Agamben, 2015, pp. 71-72). L’amore è un eterno interrogarsi, e Pagliarani non esita a farlo nell’ultima intervista della sua vita, lui che aveva proposto un Convegno sull’amore “ma poi – diceva con tristezza – alla fine tutti avevano disertato.”
Il soggetto “gettato”, che è costretto ad abitare la realtà che per lui è l’unica realtà possibile, ed è a sua volta abitato dall’“Altro” ed è abitato, in maniera irreversibile e scomposta, dalla sua irriducibile diversità. Il soggetto deve incontrare l’Altro, scavando nelle parti più profonde del suo sé, un sé sempre più smarrito essendo invaso da differenze insuperabili, che minano la sua coesione e la sua compostezza. Il soggetto deve incontrare il dolore di un affastellarsi di elementi inconciliabili che lo minano, in un immergersi che inevitabilmente toglie il fiato, lasciandolo boccheggiante in un vorticare di pensieri sconnessi, irriducibili al senso.
Affondare dentro se stessi significa finalmente traguardare il luogo dei pensieri e delle forme nascenti, dove il Puer e il Figlio si compenetrano, il luogo sorgivo dove è possibile l’invenzione condivisa che consente di condividere con l’Altro la complicità di un gesto. Un gesto condiviso e vissuto in una sintonia assoluta e così intenso da essere in grado di mettere al mondo l’eccedenza di un terzo, che sia un’idea, un’opera d’arte o un figlio. L’Altro, che è l’evento scelto che è stato lasciato accadere perché indicato da Eros, è il tormento della nostra vita perché inesauribilmente estraneo e irriducibile, e il gesto condiviso è l’esito provvisorio di un esercizio spietato su di sé. Un esercizio sostenuto da un amore imperfetto ma teso a prevaricare la sua stessa imperfezione.
Questo è l’esercizio della capacità negativa, la capacità di incontrare realmente l’evento, che è l’Altro inviato dal fato, e che è la tua necessità perché una narrazione abbia inizio. E tutto questo perché a un tratto Eros ti ha indicato quell’evento, e solo l’amore ti ha consentito di sostare in uno stato in cui l’Altro, pur amato, minacciava la tua stessa esistenza e nonostante tu ti sia sentito attanagliare dal conflitto estetico e tu abbia sentito la tua mancanza nella carne e tutta la tua difettosità. E quel momento di contatto quello sguardo intensamente ricambiato, che spazza via la tua solitudine e la tua angoscia è il momento supremo della bellezza raggiunta, quando “Noi siamo afferrati fisicamente e scagliati a perdifiato al sommo di una rupe a picco: che è il dolore della Bellezza.”
Noi viviamo in un mondo globalizzato che continuamente ci sfida all’avventura, perché noi stessi col passare dei secoli siamo diventati sempre più insofferenti alle forme compiute, abbiamo inventato la musica dodecafonica che ha sacrificato l’armonia, le forme della nostra arte si sono ribellate a ogni tradizione, i confini degli stati vacillano, intere popolazioni migrano schiantando culture secolari. Gli ambiti relazionali che fino a ieri ci contenevano tendono ad assumere forme bislacche e sconnesse, che siano la famiglia centrata sulla coppia, piuttosto che i gruppi professionali o meno, il caos delle nostre città. I nostri sociologi parlano di modernità liquida (Bauman, 2000), di società del rischio (Beck, 2002), di modernità riflessiva (Ghiddens, 1994), evocando cambiamenti epocali.
Come se la nostra evoluzione non fosse costituita dalla sicurezza di ambienti conosciuti e stabili, ma piuttosto da un incalzare di forme sempre più precarie e bizzarre, la cui ambiguità si somma all’ambiguità originaria del conflitto estetico. Noi vediamo che sempre più i sistemi di pianificazione rigidi, la relativa stabilità degli obiettivi strategici, essere sostituiti dall’avventurarsi in spazi sconosciuti dove anche le imprese più accorte si spingono, contando su una capacità di sensemaking che è ormai è l’unica modalità che consente la navigazione, l’unica possibile nella misura in cui si è preso atto che l’esito del viaggio non è garantito da rotte prefissate, ma dalle capacità del pilota di vivere l’avventura nel suo farsi momento per momento.
“Un dato esperienziale – scrive Varchetta – sembra connettere le organizzazioni e le persone che operano (nel nostro tempo): i dati anche grezzi dell’esperienza individuale e collettiva contemporanea – con le connotazioni di sempre più alta imprevedibilità di circostanze/eventi e di inevitabile correlazionalità – indicano una limitazione che circoscrive lo stato enigmatico non come una circostanza eccezionale, ma come un modo di sperimentare la quasi totalità dell’esperienza e che introduce alla tonalità emotiva dello stupore come un indubbio aiuto a predisporci a una comprensione densa di tutto ciò che, faticosamente, quotidianamente sentiamo e condividiamo.” (Mori, Varchetta, 2012, p. 51.)
Il soggetto del post-moderno può solo ritrovare nell’avventura la sua nuova progettualità, e ciò vuol dire ascoltare il dialogo incessante del Puer e del Figlio, che costituiscono la possibilità di incontrare l’evento di cui potremo innamorarci, e spendere in quell’incontro tutta la nostra capacità negativa, che è la nostra capacità di sostare in acque profonde e torbide che all’improvviso, rischiarandosi, potranno mostrarci la direzione di un percorso possibile, che ci porta a realizzare eticamente la nostra verità interna, che è costituita anche dalle risorse di cui disponiamo, insieme ad altri compagni d’avventura che abbiamo saputo incontrare, soffrendo il dolore e insieme ai quali talora, potremmo scoprire, reali momenti di bellezza.

Bibliografia
Agamben G. L’avventura, Nottetempo, Milano 2015
Balint M., Balint E., La regressione, Cortina, Milano. 1983
Bauman Z. (2000), Modernità liquida, Laterza, Roma. 2002
Beck U. (2002), Un mondo a rischio, Einaudi, Torino. 2003
Bion, W. R. (1963), Gli elementi della psicoanalisi, Armando, Roma. 1973
Bion W., (1970), Attenzione e interpretazione, Armando, Roma, 1982
Giddens A. (1994), Rischio, fiducia, riflessività, in Modernizzazione riflessiva, di Beck U., Giddens A. Lash S., Asterios. 1999
Grotstein, J.S. (2007), Un raggio di intensa oscurità, Cortina, Milano. 2009,
Meltzer D., La comprensione della bellezza e altri saggi di psicoanalisi, Loescher, Torino. 1981
Meltzer D., Williams M. H. (1988), Amore e timore della bellezza, Borla, Roma. 1989
Mori L., Varchetta G., a cura di, Cura e formazione , FrancoAngeli, Milano. 2012
Nancy J.L., La libertà dell’amore, in Lo sguardo di Eros, a cura di M. Vozza, Mimesis, Milano. 2003
Natili F., Angoscia della bellezza. Dialogo con Luigi Pagliarani e altre narrazioni, in L. (Gino) Pagliarani, Saggi scelti, a cura di D. Forti, F. Natili, Guerini, Milano. 2014
Ogden T. H. (2002), Conversazioni ai confini del sogno, Astrolabio, Roma. 2013
Pagliarani (Gino) L., Saggi scelti, a cura di D. Forti, F. Natili, Guerini, Milano. 2014
Pagliarani L. (1987), Il coraggio di Venere, Cortina, Milano. 2003
Poggi S., Il cristallo , Alle origini dell’arte astratta, Il Mulino, Bologna, 2015

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