Franco Natili
Linkedin 2019 – 2020
1) Incontri
Data di pubblicazione: 29 Luglio 2020

Franco Natili
Quando ci siamo incontrati quel giorno … Ricordi? Tu avevi appena terminato la tua conferenza. “Ci vediamo poi a prendere un aperitivo, – c’eravamo detti il giorno prima – al Ginrosa”. Per commentare. Si faceva sera ed era un po’ fresco sui tavoli all’aperto. Io non ero per nulla d’accordo con tutto ciò che avevi detto. Questo lo sapevamo entrambi.
“Tu insisti a dire …”
“Adesso mi ascolti!”
“Solo perché ti voglio bene”.
Questa l’avevo detta giusta, avevamo fatto le medie e il liceo insieme, poi tu avevi scelto la laurea in Filosofia e io in Psicologia delle organizzazioni. Naturalmente avevamo continuato a frequentarci e le nostre discussioni erano diventate sempre più accese. Spesso avevo voglia di picchiarti, ma non lo facevo perché, appunto, ti volevo bene. Poi ero interessato a te e sentivo, vagamente, che i nostri dibattiti impedivano al mio pensiero di chiudersi in se stesso.
A dirla tutta, discutere era un incessante cercarsi, come giocare a nascondino, dove era finito Luigi? Che poi neanche durante le medie e il liceo eravamo sempre d’accordo, ansi spesso anche lì c’erano state divergenze per nulla banali. Che erano culminate con la scelta della facoltà: per un verso avremmo voluto continuare a studiare assieme, per l’altro ci rendevamo conto che era proprio impossibile, lì c’erano delle diversità insuperabili.
Devo dire che paradossalmente erano state proprio quelle discussioni che avevano consolidato la mia scelta e, probabilmente, anche la tua. Ci costruivamo divergendo, ansi quel continuo divergere era una componente non banale della nostra crescita individuale. Divergenze che non erano finite con la scelta della facoltà, che si trattasse di politica, di cinema, del premio Strega riuscivamo, a partire dalle rispettive discipline, a dire sempre delle cose … non così irriducibili, ma abbastanza distanti sì.
Sulla scelta dei vini, dei ristoranti, sulle donne, lì avevamo dei gusti simili,… ma per il resto …
Comunque quella sera, sarà stata la stanchezza, il Ginrosa, i bocconcini che ci avevano portato … ecco: mi misi ad ascoltarti. Il tema era quello dell’intersoggettività: Husserl … Heidegger … Merleau-Ponty … Quelle menate lì. Figurati cosa volevano dire per me che passavo la mia vita a occuparmi delle persone, della loro crescita, ad accudire la loro diversità … Però nonostante tutto ascoltavo.
A modo mio … Non perdevo una parola, ma intanto mi guardavo intorno, i camerieri, la gente che passava, le vetrine … Il nostro mondo, mio e tuo, e noi eravamo lì in mezzo a quella confusione, che era poi l’ordine consueto delle cose, e potevamo parlare tranquillamente, discutere. E alla fine ci saremmo alzati con la convinzione che la mappa di Milano, nel frattempo, non era affatto cambiata.
- Così, quando hai finito la tua lunga chiacchierata (e avevamo fatto fuori le cose sfiziose che ci avevano portato e i bicchieri di Ginrosa), ti ho detto stranamente: “Sai che non hai tutti i torti alla fine abitiamo tutti nella stessa casa, pensa quanto è cambiata Milano da quando facevamo le medie. Ci abbiamo messo la mano un po’tutti, tu con le tue cazzate e io con le mie. Certe volte questa città ci piace, altre un po’ meno, però sono pochi quelli che vanno via. Se ci pensi l’abbiamo costruita discutendo, certe volte litigando: di politica, d’urbanistica, di cultura … Un po’ come la nostra amicizia, e dopo tanti anni siamo ancora qui … – e guardando i bicchieri vuoti – a proposito ce ne facciamo un altro? … Sì – ho aggiunto sotto voce – quello che tiene insieme tutto questo discutere è una sorta di legame … un misterioso unisono …”
2) Le briciole e le storie …
Data di pubblicazione: 5 marzo 2020


Quando entrava lo riconoscevano tutti. Dall’odore. Veniva dalla raffineria; dove si faceva l’olio alimentare. Un odore acre, penetrante, sgradevole … Era il leader del consiglio di fabbrica, un calabrese. Introdotto dalla segretaria (sorriso ironico stampato in faccia), si sedeva alla scrivania. “Franghe”, esordiva, chiamandomi per nome. Nella sua lingua.
Poi veniva fuori il problema, quello da discutere, quello urgente … Lì puntavo le orecchie: accento calabrese … influssi brianzoli. Il negoziato: spezzoni di linguaggio liso, allusioni, giri di parole, non detti … ecc. Poi c’era l’implicito … quello sempre … Da tenere in mente, altrimenti non ci si capiva … la parte più delicata e poetica:
“Perché qui anche i fiori ti tocca pagare
Perché qui anche l’occhiata il pensierino
E l’ideuzza e l’uso delle gambe,
del cuore, delle braccia, i fiori, il masticare, perché qui
anche i fiori …” (M. Cucchi, 2016)
Va bene, va bene. “L’Azienda propone …” (… con la A maiuscola). Siamo Io e lui, faccia a faccia sospiri compresi, distanze, rare recriminazioni, complicità. Da uomo a uomo. “Non ci siamo capiti, i lavoratori … il consiglio …”. “Per venirle incontro … ma non posso andare oltre …”. “Allora, propongo … per chiudere”. Accordo fatto … cucinato al momento. Stretta di mano. Più che sufficiente. Sulla scrivania, sollevate le braccia: tracce di unto e … briciole …
“(E’ la mediazione quella che rovina
Il dialogo, l’approccio autentico. Qualcuno
che provvede a tutto e ha le scorte, le riserve,
gli imballaggi pronti … )” (M. Cucchi, 2016)
Come dice il poeta.
E quando mi ha chiamato il direttore di produzione?: “E successo un casino nel reparto minestre, Catella, un manutentore, ha menato un collega, durante il turno di notte.”
“Si è fatto molto male? Il collega voglio dire”.
“No, no! Ma non si fa … Di notte poi! … Glielo mando”.
Catella entra nel mio ufficio … controvoglia. Allontana la sedia dalla scrivania, si siede, avvolto nella tuta, le cosce leggermente divaricate, il mento a toccare il petto. Compatto, come un blocco di marmo.
“Allora, cos’è successo?”. Lui non parla, io lo guardo per qualche secondo, poi insisto: “Perché ha menato il suo collega?”. Nulla, non alza neanche la testa. Passano altri secondi. Mai vista una cosa del genere, penso, adesso cosa faccio?
Continuo a fissarlo, sento la voce delle segretarie e i battiti della macchina da scrivere. Esco fuori dall’ufficio e chiamo dal telefono del collega il direttore di produzione: “Questo non parla e non si muove, che faccio?”.
“Lo mandi via, poi vedremo …”.
Torno in ufficio: “ Va bene – dico – visto che non vuole neanche giustificarsi i provvedimenti saranno piuttosto gravi. Adesso vada”. Lui non si muove. Alza la testa: “E’ andato a ravanare nella mia borsa per gli attrezzi …”. Ossia?
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“bellissime cianfrusaglie tenute dacconto,
sacchetti di plastica con cordine fatte su, elastichini, luc-
chetti, palline di gazosa (verdi), chiodi, bulloncini, cac-
ciavite, cerotti …” (M. Cucchi, 2016)
Giusto per dare un’idea. Che ne so io cosa c’era nella borsa degli attrezzi? Un pezzo di vita … forse? L’avrei dovuto chiedere. Come avrei potuto chiedere al mio amico sindacalista, con gli occhi arrossati e la tuta piena di sgarri e di patacche, chi glielo faceva fare.
Perché per chi fa il mio mestiere, questi fatti … d’accordo sono solo briciole. Ma:
“Io sono proprio di quelli che tengono le briciole nel taschino del gilè”
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“Costa sangue costa sudore soldi
non si sa mai teniamolo”. (M. Cucchi, 2019)
Chissà mai se queste briciole di umanità che teniamo nel taschino dei ricordi, non vengano buone?
Ma poi … parlando dell’oggi, a guardar bene:
“… il capo stamane è incazzato … quel verme l’ha fatto di nuovo …
Il mercato sta andando a puttane … Giovanna, l’hai visto che gonna?
fai presto che c’è la riunione … ancora le stesse menate …
è così che poi fanno carriera! L’aumento? E’ andato ramengo …
le solite scuse del c … e Francesco? L’ha avuto in quel posto …
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…………………….. stringi stringi la solita solfa …
(Questa è mia, 2020)
Questa realtà minima, quotidiana, scomparsa dalle nostre rappresentazioni dell’organizzazione, non dovrebbe provocare un sussulto? Rammentandoci che, in fondo, al dì là dei modelli scientifici, vecchi o recenti, e delle pensate sui nuovi assetti … c’è una realtà densa, umana, che si finisce per ignorare?
P.S. La poesia Le briciole nel taschino, fa parte dalla raccolta: Maurizio Cucchi, Poesie 1963-2015, Mondadori, 2016.
3) Un andare pensando
Data di pubblicazione: 18 novembre 2019


Appunto. Di sabato mattina, quando il tempo non promette nulla di buono. Sono all’edicola, davanti alla scaffalatura dei giornali. Lo vedo con la coda dell’occhio. Mi aspetto già un: ”Buongiorno capo …”. E il solito sorriso ammiccante. Invece nulla … E’ così vicino che quasi ci sfioriamo; intuisco un capo leggermente chino. Compro il giornale e mi dirigo verso il bar, senza guardarlo in faccia.
Riflettevo, appunto, sul libro di Pino, Un andare pensando, che va iniziato dalla fine. Dalle foto. Dove le gradazioni del grigio scandiscono forme nette, soffuse di una patina trasparente. Forme impalpabili, a svelare l’indicibile. Forme che, nel testimoniare il mistero, alludono a inaccessibili trasparenze.
Leggendo le pagine dell’intervista di Edith Bruck, che viene subito prima, e la sua poesia, avevo avuto la sensazione di perle stillanti di frase in frase … sentivo dentro di me un tintinnare morbido. Gocce fresche di ambrosia, a ristorare dolori nascosti e custoditi, lacrime trattenute. L’umanità trepidante, sommersa, che conosce il senso di parole come fratello … figlio.
Andando verso il bar, ripensavo a ciò che avevo appena fatto, perché i pensieri talora si mischiano secondo modi che ci sono sconosciuti. Finalmente riuscivo a provare dolore per quel gesto, per quello sguardo mancato. Dopo aver preso il caffè, dopo aver pagato, ho messo una moneta da due euro nella tasca sinistra del giaccone. Solo due euro, non doveva essere un gesto eclatante, esibito… nei confronti di me stesso. Piuttosto il ritorno a una dimensione di normalità. Di umana normalità.
Il libro comunque va letto. “E’ legittimo – scrive Pino – pensare a pensieri che si raggrumano, come sangue intorno a una ferita aperta, che forse giacciono dimenticati per qualche tempo e poi sono ripresi e che, da cristallini e trasparenti, acquistino le tracce del “grigio”, uno spazio intermedio che interrompe la dicotomia significante del bianco e del nero (carnefici e vittime) per approdare a “lavorare su un tema molto ambizioso …”.
Scherzi? Stiamo parlando dell’abisso! Il luogo del risucchio. D’altra parte se tu vuoi conoscere la “zona grigia, non puoi fare a meno di abitarla, di starci dentro. E Pino sembra starci dentro, vivendola emozionalmente e allo stesso tempo da studioso. In questo caso si dovrebbe dire da archeologo, perché bisogna continuare a scavare, per anni, perché i referti interrati siano in grado di evocare forme peraltro provvisorie, incompiute come dice lui, ma che arricchiscono lo sguardo.
Pino usa molteplici sguardi: La prospettiva psicosocioanalitica, le teorie della complessità … dove per inciso cita Cooper: “Il prossimale è sempre parziale e precario, destinato per sempre a ripetersi nel tentativo (vano) di compiersi pienamente. Il distale si realizza nell’azione a distanza, il prossimale nell’azione per contatto”.
Da qualsiasi prospettiva, Pino, non perde mai il contatto, stabilisce con la “zona grigia”, rimanendo a fianco di Primo Levi, il suo Virgilio, una relazione che diviene il luogo della sua ricerca. In questo senso il suo è un andare, un guardare l’oggetto girandogli intorno, senza mai distogliere lo sguardo. Fino a che la “zona grigia” inerisce alla visione, svelando la sua quotidianità angosciante.
Quel sabato, andando verso il bar avevo pensato che avevo distolto lo sguardo perché quel giovane africano, mi prospettava una condizione che mi terrorizzava da sempre. Allo stesso tempo, subito dopo, ho sentito l’infamia di quello sguardo negato, di quell’indifferenza che uccide facendoti sentire innocente.
Quando Pino, quasi titubante, toglie il velo dalla “zona grigia” che si espande nelle organizzazioni contemporanee, egli trova la sua legittimazione nel suo andare pensando. Egli è pienamente legittimato a farlo dall’essere, insieme al suo Virgilio, sceso agli inferi in un viaggio durato molti anni. Il suo primo libro sull’argomento, Ascoltando Primo Levi, è del 1998.
Quando gli ho dato i due euro il giovane africano mi ha detto: “Dio ti benedica”. Mio figlio, poteva essere mio figlio, mi avrebbe detto: “Grazie vecchio”. E sarebbe stato più appropriato.
Forse, ho riflettuto subito dopo, quel libro, quell’ Andare pensando: “Si è installato davvero nel mio mondo. E -come scrive Merleau-Ponty – tutt’a un tratto, in maniera fredda e indifferente, ha deviato i segni dal loro senso canonico ed essi hanno cominciato a trascinarmi in un vortice verso un significato differente che mi viene offerto perché io lo raggiunga. (Merleau-Ponty, 2019). Grazie Pino.
4) Consigli per la carriera
Data di pubblicazione: 5 agosto 2019


(Riflessioni concernenti il senso del seminario: “Sogno e progetto”)
Siamo tutti irrimediabilmente diversi, portatori di una diversità che ci rende “unici”. In migliaia di anni la specie umana non ha prodotto due esemplari identici e nessun processo di standardizzazione, potrà in futuro cambiare questa situazione.
Una figura di successo non è replicabile: se pensiamo a un grande attore, a un interprete musicale di talento, a un manager visionario, non riusciamo a parlarne senza soffermarci sulla loro unicità, anche se non giungiamo mai a coglierla pienamente.
Prendiamo Marchionne: se esistesse una biografia abbastanza accurata e cercassimo di replicarne i gesti e le scelte, non arriveremmo mai a perseguire i suoi successi; qualcuno ci direbbe che di Marchionne ci manca quel certo non so che, che non sarebbe comunque un pullover nero da indossare in tutte le occasioni.
In cosa consiste quest’unicità, che è poi una caratteristica di tutte gli esseri viventi? E’ arduo, infatti, affermare di aver visto due gatti perfettamente uguali o due alberi con una forma identica.
L’unicità, riscontrabile anche quando si parla d’individui della stessa specie,è il prodotto imprevedibile degli incontri variegati con ciò che è altro da sé.
Gli organismi viventi, nel loro esporsi all’ambiente, sviluppano una diversità che li rende unici e riconoscibili, personaggi potenziali di narrazioni che si alimentano degli incontri nel mondo pulsante di vita. Narrazioni che sono l’espressione di una diversità che consente di esserci: si potrebbe dire che l’individuo consiste nella propria diversità.
A differenza delle altre specie, quella umana è dotata di coscienza, il che significa che l’essere umano può diventare consapevole della propria diversità non solo per ciò che emerge dai propri comportamenti, ma anche per le motivazioni profonde che li determinano.
Nell’abitare il proprio ambiente, ciascuno sviluppa modi d’interazione generati dalle proprie specificità. Essendo dotati di coscienza, i soggetti umani hanno la necessità di dare un significato alle proprie relazioni, finalizzandole a processi di un’auto-realizzazione che non possono prescindere dall’armonia con l’ambiente di vita.
Da ciò il sogno. Noi diciamo: voglio fare il giornalista, il medico, l’ingegnere … e, di solito, non sappiamo spiegare perché. Noi, al massimo, possiamo dire che, attraverso processi inconsapevoli riguardanti il nostro rapporto con la realtà, abbiamo maturato un sogno.
Dal sogno noi costruiamo i nostri progetti e intraprendiamo le nostre avventure, tanto chela perdita di questa connessione genera disagio esistenziale, noia, senso di fallimento …
La perdita di questa relazione intima fra sogno e progetto fa smarrire la diversità e le differenze che ci mettono al mondo, consentendoci di perseguire possibilità di vita e di auto-realizzazione.
Per recuperare la connessione è necessario soffermarsi ai bordi della strada e chiedersi qual è il punto, lo snodo, il bivio in cui ci si è persi. Oppure il luogo in cui si è esitato, in cui non si è stati abbastanza coraggiosi, in cui si è perseguito un auto-tradimento. Il frangente in cui si sono voltate le spalle a una vita avventurosa e incerta, che avrebbe consentito di impiegare tutte le energie disponibili e sentirsi protagonisti di una narrazione.
Quella che chiamiamo carriera è l’avventura che abbiamo intrapreso per realizzare il nostro sogno, un progetto sempre esposto agli eventi imprevedibili che ci circondano.
Il sogno cambia con l’incessante mutare dell’ambiente nella misura in cui noi stessi necessariamente evolviamo, cambiando i nostri progetti. La carriera è una narrazione fatta di vicende imprevedibili, che implicano la continua consapevolezza del ruolo che vogliamo interpretare perseguendo un sogno mutevole.
Quando perdiamo il filo della narrazione che è la realizzazione, nella complessità delle nostre relazioni, della nostra diversità, dobbiamo fermarci sul lato della strada per recuperare il filo della nostra storia. Per riuscirci, a volte abbiamo bisogno di aiuto. Però l’aiuto deve consistere in qualcuno che ci aiuti a ritrovare il filo che lega il nostro sogno con il nostro progetto. Insomma è necessario trovare chi, rispettoso della nostra differenza, ci supporti in un’auto riflessione che ci rimetta in pista … in vista di nuove avvincenti avventure.
Questo è il consiglio che mi sento di dare: perché nessuno è in grado di dire a un altro (comunque mai abbastanza conosciuto nella sua diversità) cosa fare della propria vita.
5) Riflessioni sul senso del “pensare” e la cura
Data di pubblicazione: 31 gennaio 2019

(Divagazioni sui contenuti del seminario La nascita del pensiero)
Quando W. Bion ci propone l’idea di una “Realtà ultima e Verità assoluta”, ci sta dicendo che “là fuori”, fuori dalla portata delle nostre menti, c’è un qualcosa che si estende di là di ogni limite, che noi non possiamo né afferrare, né intendere.
Noi, come esseri umani, con le nostre menti finite, possiamo solo costruire delle rappresentazioni di ciò che inevitabilmente ci sfugge, e, queste rappresentazioni sono ciò che noi chiamiamo “realtà”, cioè il mondo che diventa il nostro ambiente di vita.
La realtà che abitiamo, e che condividiamo come umani, è “una nicchia”, uno spazio sottratto al mistero del cosmo, nel quale l’essere umano s’installa e, allo stesso tempo, si costituisce come specie.
Le rappresentazioni che noi costruiamo e che siamo in grado di esprimere attraverso il linguaggio, non sono il reale di ciò che ci circonda, ma l’esito di un lavoro di trasformazione che ha tramutato ciò che per noi era impensabile in forme che diventano per noi accessibili.
Dall’intrigo indecifrabile del cosmo, attraverso i nostri processi di trasformazione, noi abbiamo fatto emergere i nostri monti, i nostri laghi, le nostre città, i nostri oggetti quotidiani: in altre parole il mondo che abitiamo, l’unico nel quale possiamo esprimere la nostra umanità.
Noi che tutti i giorni, incontrandoci, attribuiamo nomi alle cose, conversiamo sui fatti del mondo e interpretiamo storie dense di speranze, gioie e dolori; noi possiamo fare tutto questo in forza di un ambiente che ci sostiene: un mondo che dobbiamo quotidianamente ricreare e sviluppare, per realizzare quei processi evolutivi che costituiscono l’elemento vitale della nostra esistenza.
Detto questo, ciò non significa che la realtà umana sia separata da barriere insuperabili dal cosmo e dalla “Verità assoluta”, piuttosto l’impensabile della “Verità assoluta”, una volta reso fruibile alla mente attraverso complessi processi di trasformazione, alimenta la nostra capacità di dare un senso e un significato a ciò che per noi costituisce la realtà.
L’immagine di montagne e di laghi o, in termini più generali, di un mondo che sorge come per incanto dal caos, fa pensare a un’attività sognante: a un incantesimo, che trasforma un vorticare disordinato di elementi incomprensibili in forme dotate di senso. Il senso che, calato nel linguaggio, diventa il significato che alimenta le nostre conversazioni, mentre siamo intenti a edificare il mondo che ci consente di esistere.
Bion sostiene che dall’incontro con il cosmo scaturiscono proto-sensazioni e proto-emozioni, che sono come scariche improvvise che sconvolgono la mente, tanto che vorremmo espellerle. La mente possiede però anche una funzione che consente di trattenere (contenere) queste scariche, per trasformarle in immagini (attraverso il sogno) e in rappresentazioni, attraverso l’uso del linguaggio
Il pensiero nasce, quindi, dove la fragile mente umana incontra l’incommensurabile della “Verità assoluta”, e nel nascere instaura una verità umana che, nella misura in cui nasce dal contatto con le continue evoluzioni del cosmo, è sempre provvisoria.
In altre parole una vita autentica, che riguardi l’individuo, il gruppo o la polis, si fonda su un pensiero che continuamente si rinnova; il processo vitale, in sé, non si fonda su una verità acquisita, ma sull’imperfezione di una verità umana sempre alla ricerca di se stessa.
La ricerca della verità, che trae la sua energia dall’amore per l’Altro, è ciò che dà senso e significato alla vita; per questo, l’attività di cura non è altro che il sostegno verso chi ha perso la capacità di far zampillare pensieri nascenti atti ad alimentare una relazione autentica con il mondo.