Lo sviluppo armonioso dell’impresa Analisi e sguardi sull’organizzazione

Osservando un’azienda dall’esterno ci si accorge come ciò che di primo acchito sembra lampante, nasconda in sé una molteplicità di azioni invisibili all’occhio. Dirigere un’azienda che sia produttiva implica doversi prendere cura dei processi di crescita e stabilizzazione, in grado di garantire una forte sintonia fra il lavoratore e l’ambiente in cui opera. Questa intesa risulta necessaria per stimolare il lavoro creativo e indurre trasformazioni che portino al progresso. Per favorirne la creazione e l’intensificazione, chi esercita la leadership deve imparare a focalizzare l’attenzione sulla componente umana, riuscendo altresì a indagare ciò che va oltre il visibile.

Laureato in Scienze Sociologiche, ha successivamente studiato Psicologia, iscrivendosi all’Albo. Socio ed ex Presidente dell’Associazione Ariele, impegnata nello studio e nella diffusione della Psicanallisi, Natili è un ex HR Manager, Consulente manageriale e psicologico, nonché Professore a contratto presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano.

Cos’è un’organizzazione? Per farla estremamente semplice basta prendere una delle definizioni del vocabolario Treccani: “L’organizzazione è un’associazione di persone collegate tra loro in una struttura organica per cooperare a un fine comune”. Detto questo, è facile rendersi conto che, a fronte dello stesso fine, possono esistere organizzazioni con strutture molto diverse e come, a partire da questa considerazione, si potrebbe disquisire a lungo su come l’evoluzione del pensiero organizzativo e delle tecnologie abbia fatto proliferare i modi dell’organizzare. A partire dalla definizione stringata del vocabolario, la materia si allarga, infatti, a dismisura, cosicché l’espressione ‘sguardi sull’organizzazione’ utilizzata nel titolo non può che segnalare la prudente esposizione di un limite e la scelta di prospettive ben definite. Ovvero, l’intento di scrutare aspetti specifici, con l’ambizione che, nonostante i limiti, la riflessione porti a un qualche risultato tangibile: a uno schizzo, se si vuole, fatto con il carboncino, che evochi una forma compiuta svelando d’altra parte la propria incompiutezza.

 

Al fine di delineare i punti da indagare, val la pena, innanzi tutto, di porre l’attenzione sul fatto che per la specie umana l’organizzarsi in vista di un fine è una funzione primaria, tale da essere decisiva per la sopravvivenza. Se per un verso l’essere umano si è svincolato dall’ambiente naturale acquisendo la capacità di costruire un mondo a sua misura, d’altra parte questa condizione di privilegio lo mette nelle condizioni, come scrive il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, di far fronte “allo stress generato dalla necessità di stabilizzare questa situazione di privilegio”.

Ciascun individuo, in questa prospettiva, è responsabile, in misura più o meno rilevante, della realizzazione delle organizzazioni che abita, giacché nessuna attività umana può svolgersi al di fuori di un contesto che abbia una qualche struttura co-costruita o in fase di co-costruzione, essendo proprio l’organizzare –che si realizza nei vari ambiti– l’attività necessaria per attuare quel continuo processo di stabilizzazione che consente all’uomo di salvaguardare la sua nicchia.

Perfino l’artista, che può sembrare il più refrattario a essere coinvolto in contesti che in qualche modo possano costituirsi come vincoli, non può esimersi dal confrontarsi con le regole che governano il linguaggio usato per dar vita alla sua arte, linguaggio co-costruito nell’ambito di un sistema sociale allargato. Queste regole possono essere trasgredite, ma non in funzione di un ‘uscire da’, quanto piuttosto di un ‘far evolvere’. La musica dodecafonica, tecnica di composizione musicale ideata da Arnold Schönberg, se per un verso è una trasgressione rispetto alle forme musicali tradizionali, per l’altro è la proposizione di nuove regole compositive.

In effetti, la necessità di mettere in atto processi di stabilizzazione, sia nei confronti dei cambiamenti nell’ecosistema sia delle perturbazioni che riguardano l’ambiente più propriamente umano, è continua e riguarda tutte le organizzazioni, non ultime quelle di cui ci si vorrebbe occupare in questo breve saggio, ossia quelle produttive. In particolare, si porrà la lente sui processi attraverso cui tale stabilizzazione si realizza, concentrando lo sguardo sulle dinamiche relazionali che soggiacciono alle evoluzioni organizzative, mettendo tra parentesi tutto il resto.

Il primo paragrafo di questo lavoro Il visibile e l’invisibile dell’organizzazione, oltre a richiamare un famoso testo del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, mostra che osservare un’organizzazione è come guardare una città nelle ore di punta, in cui a prima vista tutto sembra dispiegarsi con grande evidenza, ma poi, appena ci si sofferma su un dettaglio, ci si rende conto che dietro quel frammento, quel gesto o quel movimento apparentemente banale, c’è un universo tutto da esplorare, che si colloca tra il visibile e l’invisibile. Se questo per un verso implica, rispetto alla prospettiva che si va delineando, la necessità di mantenere l’attenzione sulla componente squisitamente umana, trascurando il resto, dall’altro determina una sorta di sdoppiamento dello sguardo: indagare cioè l’oggetto della ricerca sia rispetto a ciò che si mostra sia rispetto a ciò che sfugge all’esperienza sensibile.

Il visibile e l’invisibile dell’organizzazione

 La singola organizzazione è un luogo fortemente caratterizzato. Questo va chiarito. Quando si entra in un’azienda si supera un confine. Quando un consulente visita un centro direzionale, passa da una portineria dove gli vengono chiesti un documento, le generalità, il motivo della visita e chi sono i suoi interlocutori interni. Passato il varco, si rende visibile un certo assetto degli ambienti e degli uffici, si respira un determinato clima. Spesso il visitatore viene poi prelevato da una segretaria che lo accompagna alla sua destinazione. Lungo i corridoi transitano persone più o meno indaffarate. Dalle porte aperte talora il visitatore potrà sbirciare negli uffici, dove impiegati e dirigenti lavorano al computer o parlano animatamente. Se non è un frequentatore abituale, proverà un vissuto di estraneità, si muoverà con cautela e peserà le parole.

Arnold Schönberg fu un compositore austriaco teorico del dodecafonico (1874-1951)

Non è molto diverso, in fondo, da quando si visita una nuova città, magari all’estero. L’abitudine induce a soffermarsi sui particolari, sugli oggetti ben definiti, sui volti, sulla disposizione degli uffici e delle sale riunioni, perfino sul colore delle pareti. E si andrà avanti così: si analizzeranno le parole pronunciate dagli interlocutori aziendali, i concetti espressi in maniera chiara, le domande formulate, ecc.

Non c’è però l’abitudine a esaminare tutto ciò da un’altra prospettiva, anche se la domanda potrebbe essere ovvia: qual è il connettore? In fondo si ha la sensazione che questa fabbrica, questo centro direzionale, questo supermercato, hanno un loro modo di essere e di porsi, che rivela una diversità che all’inizio rende prudenti ed esitanti e alla quale, con il tempo, ci si abitua. Come ci si abitua a nuovi quartieri, città e ambienti.

Spesso però la domanda rimane inevasa: cos’è che connette tutti questi oggetti, uffici, stand, persone, in modo tale che appaiano come un mondo a sé stante, un luogo altro in senso proprio? Chi è l’artefice di questa specificità dell’abitare, dove l’elemento umano e l’organizzazione, in tutte le loro articolazioni, si relazionano in un modo irripetibile e in qualche modo misterioso?

Spesso quando viene posta questa domanda, la risposta rimanda a un momento fondativo, a figure ormai mitiche di imprenditori illuminati in grado di forgiare le menti e con esse i prodotti di successo, le idee innovative. E ciò per certi versi è innegabile, come mettere in discussione figure come Steve Jobs, Bill Gates, Adriano Olivetti e Sergio Marchionne?

Però la domanda può essere più sottile, può esserci il colpo di genio, la leadership, la visione, ma tornando al nostro punto: cosa tiene insieme nel tempo un numero crescente d’individui nello strutturare, partendo da un’idea geniale, o dalla fede in un leader o in una visione, un’organizzazione sempre più complessa e articolata, in modo tale che mantenga quel nocciolo duro, quella ferrea coerenza interna, quella visione del mondo e della realtà, quella specificità inimitabile dell’abitare? Tanto da renderla immediatamente riconoscibile, nello stesso modo in cui, mettiamo, riconosciamo le differenze fra due città come Firenze e Berlino?

Certo la cultura, i valori la storia: potremmo dire che Firenze è, appunto, il prodotto di una storia, di una narrazione intrisa di certi valori in grado di sviluppare una cultura che ci ha donato monumenti come La Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Palazzo Vecchio; rimane però la domanda: qual è l’elemento che connette, per cui chi abita l’organizzazione può sviluppare liberamente la sua soggettività senza smarrirsi, senza perdere i contatti con tutto ciò che è necessario condividere? Come è possibile che quei valori, quella cultura, interpretati in maniera diversa da una pluralità di individui, non vengano persi nel marasma, nell’emersione incessante di soggettività, gelose del loro essere di per sé?

Ecco allora che si concretizza un’ipotesi, magari ardita, ma che rappresenta una delle frontiere più avanzate della Filosofia del Novecento e della Psicoanalisi, la quale afferma che, a prescindere dagli eventi che li riguardano come soggetti, gli esseri umani non finiscono di essere connessi a livello d’intersoggettività, poiché essa è un elemento primario e costitutivo della loro natura.

Giuseppe Civitarese, uno psicoanalista post bioniano la cui validità di studioso è riconosciuta a livello internazionale, afferma: “L’intersoggettività è il concetto centrale del paradigma relazionale, il più diffuso della psicoanalisi contemporanea. […] Il più delle volte è sinonimo di interpersonale e, dunque, indica l’interazione che avviene tra due soggetti già costituiti. In questa accezione ha poco a che fare con la teoria radicalmente sociale della costituzione della soggettività che il termine ha, almeno all’origine, nella filosofia di Edmund Husserl. Nell’accezione originaria di intersoggettività che si deve a quest’autore, e che poi è radicalizzata da Merleau-Ponty, si dissolve l’opposizione binaria soggetto-intersoggettività. Mentre però per vedere il soggetto (la differenza) basta il senso comune, il piano indistinto o inconscio dell’intersoggettività è invisibile”.

Ecco appunto l’invisibile, che può essere colto mettendo provvisoriamente fra parentesi il senso comune, o se vogliamo il modo consueto di guardare l’organizzazione. Uno sguardo radicalmente diverso potrebbe, infatti, vedere la rete di fili sottilissimi, così sottili appunto da non essere percepiti dai sensi e tali da costituire una connessione tra gli operai della fabbrica, gli impiegati e i dirigenti del centro direzionale e perfino il personale delle vendite. Una rete nella quale transitano i miti e le storie delle origini, e dove viene costruita una visione condivisa della realtà, mediante l’elaborazione inconscia dei fatti organizzativi: i traumi, i conflitti, i disagi, i successi e gli insuccessi.

Un luogo dove, fra l’altro, in una prospettiva psicosocioanalitica, viene contenuto il riemergere e l’interferire delle ansie primarie (schizo-paranoidi e depressive) nelle relazioni che intercorrono tra gli uomini e le donne dell’organizzazione.

Quest’area, questo spazio della mente che abbiano chiamato intersoggettività, è dove, in maniera incessante e processuale, si forgia l’immaginario collettivo, un luogo indistinto e condiviso, complementare e contestuale al mondo dove gli oggetti hanno forme distinte e vengono nominati attraverso il linguaggio, che è il mondo della nostra quotidianità, il luogo della coscienza e della consapevolezza.

Tra questi due livelli possiamo immaginare uno spazio intermedio nel quale le forme dell’immaginario si ibridano con il linguaggio e trovano una sintesi, appunto, in qualcosa che assume un aspetto visibile non solo nella carta dei valori, nella mission e nella vision aziendale, che spesso non sono altro che dei dichiarati, ma soprattutto nelle dinamiche reali, nelle trame relazionali interne all’organizzazione, che possono assumere un senso compiuto soltanto a fronte di una specificità dello sguardo in grado di spaziare tra il visibile e l’invisibile.

La leadership e l’elefante: il ruolo della creatività

D’altra parte, non si sta parlando di cose così astruse: nel linguaggio politico-giornalistico si discute sempre più spesso di leader in grado di capire cosa c’è nella ‘pancia della gente’. Dei grandi leader politici del passato, Mohandas K. Gandhi, Martin Luther King, John Kennedy, per esempio, ma anche dei grandi (già citati) imprenditori, con un linguaggio meno sciatto viene sottolineata la capacità di sincronizzarsi con il loro popolo e/o con il loro tempo.

Mohandas Karamchand Gandhi (noto anche come Mahatma) politico, filosofo e avvocato indiano (1869-1948)

Ed è proprio questo che si intende quando ci si riferisce a uno sguardo diverso che la leadership può utilizzare per osservare la realtà, sia così come si presenta nella sua immediatezza sia sintonizzandosi con l’invisibile condiviso, dove opera la fucina che dà forma a ciò che giunge ai sensi in maniera caotica.

L’immagine dell’elefante è emersa, conquistando a poco a poco la scena, durante l’erogazione in una multinazionale italiana del Listening post1 , uno strumento adottato per comprendere i vissuti e le percezioni dei collaboratori a fronte di cambiamenti attuati dalla dirigenza per le vicissitudini di un mercato in rapida evoluzione.

Il convenor, coordinatore del gruppo, come previsto dal metodo, diventa particolarmente attivo nella terza fase del Listening post, supportando i partecipanti nelle costruzioni di senso relative ai vissuti emotivi e ai pensieri, più o meno articolati, che emergono durante il percorso.

In tale prospettiva questa attività, oltre a indagare i vissuti organizzativi, attiva un processo di apprendimento, consentendo ai partecipanti una maggior consapevolezza sul significato delle dinamiche relazionali che si accendono nell’ambiente di vita e di lavoro.

Ma da dove emerge l’elefante? Rispetto alle ipotesi che si stanno enunciando, l’elefante si palesa in quell’area intermedia che si colloca tra:

•  il visibile: rappresentato dal disagio che accomuna gli interventi di quasi tutti i partecipanti, che da varie angolazioni descrivono le difficoltà e lo spaesamento che sperimentano quotidianamente nell’organizzazione;

• l’invisibile: costituito dall’elaborazione effettuata nell’immaginario collettivo, dove i vissuti emozionali di rabbia, delusione e frustrazione alimentano forme che a un tratto trovano in una metafora l’immagine in cui tutti, finalmente, si riconoscono.

L’uso del Listening post ha consentito, in altre parole, quello sguardo che, nella sua duplicità, riesce a cogliere le costruzioni di senso che scaturiscono dall’universo intersoggettivo. L’elefante, come metafora emergente, costituisce l’immagine puntuale di un’organizzazione che rispetto allo scorrere rapido degli eventi esterni e in antitesi agli intendimenti e alle azioni della dirigenza, si muove con la lentezza del pachiderma. La bestia segnala beffardamente l’impotenza di chi non riesce ad attivare le energie necessarie per trasformare l’elefante, adatto alla savana e alle foreste fluviali, in una gazzella pronta a slanciarsi negli spazi aperti del mondo globalizzato.

Di frequente le direzioni aziendali, per adeguarsi ai tempi, calano interventi organizzativi come colpi di scure che rischiano di lacerare gangli vitali, generando una sorta di diffusa impotenza. Come, per esempio, la mensa iper moderna di una multinazionale che, nel complesso industriale fatto di edifici vetusti e di uffici arredati di legno antico, congelava lo sguardo, atterrito dalla plastica luccicante delle sedie e dei tavoli e dalle pareti rivestite di resina.

Rispetto alla necessità di stabilizzare l’organizzazione, ossia adeguarla agli scarti dell’ecosistema superando le perturbazioni paralizzanti del tessuto connettivo costituito dall’intersoggettività, la leadership deve allenarsi, invece, a sintonizzare lo sguardo sul confine tra il visibile e l’invisibile, da dove sgorgano le immagini che suggeriscono i percorsi e le alternative agibili.

Non è possibile, infatti, attivare le trasformazioni se non si è in sintonia con il luogo della comune appartenenza, il luogo originario dove da sempre si creano i modi dell’abitare. Il leader, per essere efficace, deve rimanere sintonizzato con lo spazio creativo dell’unisono, il luogo della poiesis, di cui la leadership è parte integrante, per stimolare il lavoro creativo condiviso che riesce a trasformare l’elefante in gazzella.

Il sintonizzarsi con lo spazio potenzialmente creativo dell’unisono non è automatico, ma implica un’educazione dello sguardo, una focalizzazione dell’attenzione e la consapevolezza che il cambiamento per un verso è una necessità fisiologica, ma per l’altro non può realizzarsi che attraverso i modi utilizzati dalla specie per garantire la stabilizzazione dei suoi spazi vitali.

Nella prospettiva in cui la leadership si realizza favorendo processi di sincronizzazione al fine dell’elaborazione dei pensieri nuovi, in sintonia, fra l’altro, con quanto teorizzato dallo psicoanalista Wilfred Bion rispetto alla relazione contenitore-contenuto, si afferma in maniera radicale che solo la convergenza di più menti può consentire processi di trasformazione creativa.

Nella location italiana di una multinazionale che stava modificando la sua architettura organizzativa, impattando in maniera rilevante sulle strutture locali, il Listening post aveva fatto emergere un’altra metafora: “Siamo nella striscia di Gaza, nella terra di nessuno, in cui ognuno fa fatica a trovare il proprio credo”.

Anche qui si vede come trascurare il luogo dell’unisono generi lo spaesamento di chi si sente scaraventato in un mondo sconosciuto in quanto non co-costruito, poiché solo la creazione condivisa di valori e verità genera appartenenza.

Entrambe le metafore di cui si è detto sono scaturite da uno sguardo intento sullo spazio intermedio situato tra il visibile e l’invisibile, rivelando le gravi disfunzioni dell’abitare e la possibilità di un fine. Uno sguardo che paradossalmente, rischia, perdendo la sua duplicità, di disperdersi nel mare degli oggetti, diventando incapace anche di cogliere quel disagio diffuso che è visibile solo se si è in grado di focalizzare l’attenzione sull’insieme, sulla coralità che fa da sfondo a tutte le frasi che vengono pronunciate.

Divenire gazzella e/o riscoprire un contesto di valori condivisi, sono fini che implicano modi di realizzazione che scaturiscono necessariamente da un’attività immaginativa condivisa (poiesis) e da una praxis, che può certamente utilizzare modelli organizzativi suggeriti dalla letteratura scientifica, ma soltanto per realizzare le ‘forme’ via via emergenti, lungo un confine che non può essere ignorato.

Un formicaio di processi

Un formicaio è un sistema complesso, un proliferare di processi e ruoli: la regina presidia la riproduzione insieme ai maschi. Le formiche operaie cercano il cibo, lo trasportano nel formicaio, accudiscono la regina e si occupano delle larve. Quelle soldato, infine, difendono la comunità dagli attacchi esterni.

Dall’esterno il formicaio assomiglia a un’organizzazione umana. In realtà ci sono differenze sostanziali. Per descrivere le differenze fra l’animale e l’umano il filosofo Giorgio Agamben cita il suo collega Martin Heidegger2 : “Il filo rosso che guida l’esposizione di Heidegger è costituito dalla triplice tesi: ‘La pietra è senza mondo (weltlos), l’animale è povero di mondo (weltarm), l’uomo è formatore di mondo (weltbildend)’”. L’animale è “povero di mondo” perché l’ambiente nel quale agisce “sospinto senza sosta in una molteplicità istintuale” lo delimita; egli non può entrare veramente in rapporto con ciò che lo circonda se non attraverso i pochi elementi che definiscono il suo universo percettivo. Per l’animale il mondo appare aperto, a differenza di quanto accade per la pietra, ma non accessibile. Per questo i processi del formicaio sono, pur nella loro varietà, sempre uguali a se stessi.

L’uomo, a differenza dell’animale, è in grado di forzare la prigione dell’ambiente naturale che, nel contenere, condanna a una ripetizione infinita; ma l’uscire all’aperto, per la specie umana, consiste nell’incontrare un universo caotico, come il neonato che, dopo esser venuto alla luce, si ritrova in un mondo estraneo e senza limiti, dopo aver sperimentato il luogo caldo e nutriente della placenta.

Da ciò la necessità di costruire una nicchia su misura, un mondo fatto per l’uomo che, con l’espansione della specie, si declina in una molteplicità di livelli: dai continenti alle nazioni, dalle città ai borghi sperduti, e dalle imprese multinazionali a quelle locali. Ogni livello, per funzionare, necessita di una serie di attività che sono organizzate in processi. Un’azienda produttiva pullula di processi esattamente come un formicaio. Nell’organizzazione le attività sono disperse in un’infinità di rivoli, che s’incanalano in modo da convergere verso un fine che consiste sia in qualcosa di esplicito –la realizzazione di un prodotto comunque inteso– sia in qualcosa di implicito e più generale, come contribuire a espandere e ad articolare gli spazi vitali in cui l’elemento umano può svilupparsi e cercare la sua auto-realizzazione.

Rispetto all’animale, definito dall’ambiente che essendogli inaccessibile gli appare come immutabile, la specie umana, una volta infrante le barriere, è come se cercasse se stessa incessantemente, tanto da apparire come condannata a ridefinirsi, senza soluzione di continuità, durante le sue continue incursioni in un ecosistema di cui non è in grado di cogliere il senso e i limiti. Bion, che per certi versi ha rivoluzionato il pensiero psicoanalitico, chiama l’ineffabile che circonda la specie “O” (original), definendolo come “la realtà prima e la verità assoluta” (Bion, 1970). La mente umana, in ragione della sua finitezza, non può comprendere “O”, può però trasformare le proto-sensazioni e le protoemozioni che si generano al suo contatto, per dar vita, in una dimensione onirica, a quell’immaginario che diviene il luogo della poiesis, il luogo creativo dove inconsciamente viene data una forma sensata a un mondo a misura d’uomo, incastonato e come sospeso negli spazi illimitati dell’incomprensibile.

L’immaginario è quello spazio della mente in cui ciascun soggetto custodisce le sue immagini poetiche, uno spazio che consente la provvisoria definizione di sé e del mondo, come scrive nel suo libro La poetica della revêrie il filosofo francese Gaston Bachelard: “L’immagine poetica può essere intesa come una testimonianza del processo di scoperta di un animo del proprio mondo, il mondo in cui vorrebbe vivere, in cui è degno di vivere”. Quando in un’azienda produttiva un gruppo di collaboratori siede intorno a un tavolo per creare o modificare un processo, accade talora che qualcuno salti su dicendo: “Ora mi è chiaro cosa va fatto e come”, scandendo subito dopo parole che ipotizzano percorsi nuovi e sorprendenti. E tutti sono già coinvolti, perché lo scenario evocato risuona immediatamente nel gruppo e tutti sono in grado di integrare, completare, fino a che il quadro variopinto del nuovo processo, emergendo, evidenzia il farsi di una realtà umana.

È successo che l’immagine inconscia, raggiunto il suo compimento, è divenuta intenzione significante, che ibridandosi nel linguaggio, in un luogo

L’imprenditore statunitense Bill Gates, fondatore di Microsoft

situato tra il visibile e l’invisibile, ha reso concreto uno scorcio di mondo in cui, a partire da quel momento, un gruppo di uomini troveranno, per un tratto della loro esistenza, identità e significato, entrambi resi possibili dal continuo intrecciarsi di soggettività autonome con la rete connettiva dell’intersoggettivo. Se per un verso c’è un soggetto che enuncia la preconcezione di un mondo, esso può realizzarsi soltanto a fronte di un’istantanea condizione di un unisono, non nel senso di un’adesione, ma in quello di una comunità di uomini e di donne che, rispetto a quella preconcezione, sono un tutt’uno inestricabile.

 

Il soggetto incompiuto e la creazione provvisoria

La forma implica un mondo, essa non si dà in assenza di una struttura di senso che la contenga. La specie umana, essendosi sottratta all’ambiente naturale, deve ricorsivamente creare se stessa e il suo mondo. In questo processo ogni creazione è provvisoria, perché la dialettica fra la specie e il loro ambiente non può esaurirsi, in quanto fonda una condizione di esistenza. Non può esserci, infatti, in mancanza di un riferimento stabile, una specie compiuta, né può darsi un mondo stabile che possa contenere una specie alla continua ricerca di sé.

Il soggetto che opera nelle organizzazioni produttive, pur sapendo che il suo fine immediatamente evidente è quello di produrre, per esempio, dadi per il brodo piuttosto che elettrodi per la produzione dell’acciaio, o magari modelli per strutture organizzative più efficienti, sa, più o meno consciamente, che è il susseguirsi di gesti compiuti dentro un’organizzazione umana a legittimare la sua esistenza in un mondo fondato sulla continuità dei suoi gesti.

Il soggetto è più o meno consapevole che la sua esistenza si compia nella relazione dialettica fra il suo sé, come luogo di soggettività, e il suo ambiente, come luogo d’intersoggettività. Quando un uomo perde il lavoro, certo, è preoccupato e perfino angosciato di perdere i suoi mezzi di sussistenza, trema per l’avvenire dei suoi figli, ma, allo stesso tempo, vive lo spaesamento di una condizione che sembra escluderlo dal ciclo vitale che gli consente di assumere identità tangibili, anche se provvisorie, e di sperimentare verità sfuggenti che però consentono reali sensazioni di autorealizzazione. Allo sguardo che, in maniera chirurgica, si sintonizza con lo spazio intermedio fra il visibile e l’invisibile, supportato magari da attrezzi pensati per indagare l’esperienza3 e in grado di stabilizzare e dirigere l’attenzione, non può sfuggire altresì la dialettica fra soggettivo e intersoggettivo. Perché se il soggetto non può sognare un posto nel mondo in assenza di un ambiente condiviso, non può d’altra parte non essere compresente nel momento della preconcezione e concezione dei luoghi della sua esistenza.

Quando inattese perturbazioni scuotono il tessuto organizzativo facendolo ondeggiare pericolosamente, paventando la possibilità di strappi e lacerazioni. Quando la rabbia, lo scoramento e l’impotenza appaiono negli occhi e nei gesti di una popolazione aziendale, ciò è frequentemente dovuto a chi, avendo ruoli di potere, si è dimostrato privo della necessaria consapevolezza.

Tali situazioni denunciano uno sguardo così soggiogato dalle variabili hard dell’organizzazione (strategie, strutture, sistemi), da non essere più in grado di avvertire il momento in cui gli individui non percepiscono più il loro ambiente come il luogo della loro auto-realizzazione e, allo stesso tempo si sentono defraudati del loro essere solidarmente responsabili dei luoghi della loro appartenenza. Perché dall’alto sono state calate pseudo-verità intollerabili, che inceppano i meccanismi creativi in grado di identificare il gesto capace di dare nuovo slancio all’avventura organizzativa.

La dirigenza dev’essere capace, piuttosto, di una focalizzazione e di un’attitudine alla cura che consiste nel riparare un meccanismo danneggiato e che gira a vuoto. Un meccanismo che se non può prescindere dall’iniziativa dei singoli non può, per un altro verso, essere inibito là dove l’unisono traccia il proprio futuro. Non dimenticando che ciò che può inibire consiste nel confondere le moderne tecnologie organizzative, utili nelle praxis realizzative, con la poiesis dove si realizza la preconcezione di nuovi e sorprendenti sviluppi per l’organizzazione e i soggetti che la abitano.

In sostanza, dirigere un’azienda produttiva significa, in via prioritaria, dedicarsi alla cura di quei meccanismi che presiedono allo sviluppo armonioso di un’organizzazione, meccanismi di per sé preesistenti in quanto impliciti nella relazione tra l’uomo e il suo ambiente, che sono in grado di dar vita a organismi unici e irripetibili. La cura consiste, infatti, non nell’ingabbiare, ma nel liberare le energie creative che si esplicitano nella relazione tra l’unicità dei soggetti e della rete che li connette. Accade allora che, nel corso della vita, ciascuno, specchiandosi nell’organizzazione, ritrovi le forme variegate e sempre incompiute che l’hanno accompagnato in una vita di lavoro. Mentre l’organizzazione, lungo una storia che si snoda in un susseguirsi di vicende avventurose, può celebrare a un tratto i suoi miti, spesso impreziositi dal ricordo di persone straordinarie. E in tutto ciò risuona lo scorrere ininterrotto di vite compiutamente umane.

Letture consigliate 
Agamben G. (2002), L’aperto. L’uomo e l’animale, Boringhieri, Milano. 
Bachelard G. (1960), La poetica della revêrie, Dedalo, Bari.
Bion W. R. (1963), Gli elementi della psicoanalisi, Armando, Roma. 
Bion W. R. (1970), Attenzione e Interpretazione, Armando, Roma. 
Civitarese G. (2019), Intersoggettività e teoria del campo analitico, letto al Centro psicoanalitico di Pavia il 10 dicembre 2019. 
Forti D., Natili F., Varchetta G. (2018), Il soggetto incompiuto. Psicosocioanalisi dell’individuo, dell’organizzazione e della polis, Guerini, Milano. Heidegger M. (1929-30), Concetti fondamentali della metafisica: mondo, finitezza, solitudine, Gesamt-ausgabe, XXIX- XXX. 
Merleau-Ponty M. (1964), Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano. 
Merleau-Ponty M. (1960), Segni, Il Saggiatore, Milano. Stoterdijk P. (2001), Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heiddeger, Bompiani.

1 Il Listening post è uno strumento creato da Opus di Londra (Organization for the promotion of social understanding), con l’obiettivo di osservare e comprendere le dinamiche di cambiamento socioculturale in atto nella società. Questo viene erogato generalmente a un gruppo di 15-20 partecipanti e ha una durata complessiva di circa due ore e mezza. Con il coordinamento di una figura chiamata Convenor nella prima fase vengono condivisi i vissuti, le esperienze e le riflessioni dei partecipanti; nella seconda si formano dei sottogruppi che identificano i temi principali, nella terza fase, supportato dal convenor, il gruppo viene stimolato a formulare analisi del contesto e ipotesi sia interpretative sia propositive.

2 Trascrizione di un corso tenuto all’Università di Friburgo: Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Ein-samkeit.

3 Qui si vuole alludere agli strumenti di sviluppo organizzativo di carattere esperienziale che contengono l’intuizione di quello spazio intermedio che, come si è ipotizzato, si colloca tra il visibile e l’invisibile. In questo articolo si è citato il Listening post, che si ritiene essere, insieme con il Social dreaming, tra gli strumenti più efficaci per indagare l’area su cui s’è posta l’attenzione. D’altra parte si ritiene che strumenti più tradizionali come, per esempio, la tecnica degli auto-casi, la ricerca intervento, il gruppo operativo, assieme ad altri strumenti sviluppati in un’ottica esperienziale, siano comunque utili a rimettere in moto una macchina organizzativa inceppata, a condizione di non perdere il focus sui meccanismi fondamentali a cui si è accennato.

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